Valentina D'Urbano, Isola di Neve, Longanesi, 2019, pp. 512.
2004. A ventotto anni, Manuel si sente già al capolinea: un
errore imperdonabile ha distrutto la sua vita e ricominciare sembra
impossibile.
L’unico suo rifugio è Novembre, l’isola dove abitavano i suoi nonni. Sperduta
nel mar Tirreno insieme alla sua gemella, Santa Brigida – l’isoletta del
vecchio carcere abbandonato –, Novembre sembra il posto perfetto per stare da
solo. Ma i suoi piani vengono sconvolti da Edith, una giovane tedesca
stravagante, giunta sull’isola per risolvere un mistero vecchio di
cinquant’anni: la storia di Andreas von Berger – violinista dal talento
straordinario e ultimo detenuto del carcere di Santa Brigida – e della donna
che, secondo Edith, ha nascosto il suo inestimabile violino. L’unico indizio
che Edith e Manuel hanno è il nome di quella donna: Tempesta.
1952. A soli diciassette anni, Neve sa già cosa le riserva il futuro: una vita
aspra e miserabile sull’isola di Novembre. Figlia di un padre violento e
nullafacente, Neve è l’unica in grado di provvedere alla sua famiglia. Tutto
cambia quando, un giorno, nel carcere di Santa Brigida viene trasferito uno
straniero. La sua cella si affaccia su una piccola spiaggia bianca e isolata su
cui è proibito attraccare. È proprio lì che sbarca Neve, spinta da una
curiosità divorante. Andreas è il contrario di come lo ha immaginato. È
bellissimo, colto e gentile come nessun uomo dell’isola sarà mai, e conosce il
mondo al di là del mare, quel mondo dove Neve non è mai stata. Separati dalle
sbarre della cella, i due iniziano a conoscersi, ma fanno un patto: Neve non
gli dirà mai il suo vero nome. Sarà lui a sceglierne uno per lei.
Sullo sfondo suggestivo e feroce di un’isola tanto bella quanto selvaggia, una
storia indimenticabile. Con la travolgente forza espressiva che da sempre le è
propria, Valentina D’Urbano intreccia passato e presente in un romanzo che
esalta il valore e la potenza emotiva dei ricordi, e invita a scoprire che, per
essere davvero se stessi, occorre vivere il dolore e l’amore come due facce di
una stessa medaglia.
"Se ami davvero qualcosa, la ami a tal punto da farti del male"
Avevo iniziato questo libro un po' di tempo fa, ma poi impegni vari non mi avevano permesso di finirlo. Negli ultimi giorni, grazie a un po' di tempo libero, l'ho ripreso e sono riuscita a terminarlo.
È il secondo romanzo di Valentina D'Urbano che leggo e devo dire che la mia opinione rimane piuttosto invariata rispetto alla precedente lettura.
La storia è bella, interessante e coinvolgente ma forse in alcuni punti risulta un po' lenta nello svolgimento, soprattutto nella prima parte, mentre verso la fine il susseguirsi degli eventi e lo scioglimento di tutti i dubbi e le domande tengono il lettore in tensione per scoprire gli sviluppi e la verità.
Il racconto si svolge su due binari paralleli, alternando i fatti avvenuti nel 1952 a quelli che avvengono nel 2004. Le vite dei quattro protagonisti si intrecciano e si sviluppano a distanza di oltre 50 anni in una serie di situazione uguali e contrarie ma tutte legate da un filo conduttore che scopriremo essere qualcosa di impensabile e ineluttabile.
La scrittura è lineare e non troppo articolata, forse si sarebbe potuto diversificare un po' il linguaggio dei vari personaggi. Questo appunto mi è saltato all'occhio durante un dialogo che vedeva protagonista il padre di Neve. Viene descritto come un uomo rozzo, poco istruito, guidato dall'alcol più che dalla ragione. Ebbene mi sarei aspettata che anche il suo linguaggio rispecchiasse tutto ciò anziché leggere un perfetto italiano con tanto di congiuntivi al punto giusto: credo che un personaggio venga caratterizzato, oltre che dalle descrizioni fisiche e comportamentali, anche dal linguaggio usato.
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