ADDIO A GABRIEL GARCÌA MARQUEZ
ADDIO
A GABRIEL GARCÌA MARQUEZ
Si è spento a 87 anni a causa di
un'infezione polmonare "il più grande scrittore visionario del nostro
secolo", come lo ha definito il Presidente della Repubblica Napolitano.
Aveva dato vita a quel Realismo magico
che ci catapultava in mondi straordinari e in storie visionarie e improbabili.
Il suo più grande capolavoro
"Cent'anni di solitudine" ha venduto oltre 50 milioni di copie in
tutto il mondo e "L'amore ai tempi del colera" è diventato un film di
grande successo.
L'incipit di "Cent'anni di solitudine"
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello
Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo
padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un
villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica cos truito sulla riva
di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate,
bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte
cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.
Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi
piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e
tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita.
Uno zingaro corpulento, con barba
arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una
truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava
meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa
trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli,
le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i
legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano
di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove
pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata
dietro ai ferri magici di Melquìades. "Le cose hanno vita propria,"
proclamava lo zingaro con aspro accento, "si tratta soltanto di
risvegliargli l'anima." José Arcadio Buendìa, la cui smisurata
immaginazione andava sempre più lontano dell'ingegno della natura, e ancora più
in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella
invenzione inutile per sviscerare l'oro della terra. Melquìades, che era un
uomo onesto, lo prevenne: "Per quello non serve." Ma a quel
tempo José Arcadio Buendìa non credeva nell'onestà degli zingari, e cos i' barattò
il suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.
Ursula Iguaran, sua moglie, che faceva
conto su quegli animali per rimpinguare il deteriorato patrimonio domestico,
non riuscì a dissuaderlo. "Molto presto ci avanzerà tanto oro da
lastricarne la casa," ribatté suo marito. Per parecchi mesi si ostinò a
dimostrare la veracità delle sue congetture. Esplorò la regio ne a palmo a
palmo, compreso il fondo del fiume, trascinando i due lingotti di ferro e
recitando ad alta voce l'esorcismo di Melquíades. L'unica cosa che riuscì a
dissotterrare fu una armatura del quindicesimo secolo con tutte le sue parti
saldate da una crostaccia di ruggine, la cui cavità aveva la risonanza vacua di
un'enorme zucca piena di sassi. Quando José Arcadio Buendìa e i quattro uomini
della sua spedizione riuscirono a disarticolare l'armatura, vi trovarono dentro
uno scheletro calcificato che portava appeso al collo un reliquiario di rame
con un ricciolo di donna.
A marzo tornarono gli zingari. Questa
volta traevano un cannocchiale e una lente grande come un tamburo, che
esibirono come l'ultima scoperta degli ebrei di Amsterdam. Misero a sedere una
zingara a un'estremità del villaggio e collocarono il cannocchiale sull'entrata
della tenda. Per cinque reales, la gente poteva chinarsi sul cannocchiale e
vedere la zingara a portata di mano. "La scienza ha eliminato le
distanze," proclamava Melquìades. "Tra poco, l'uomo potrà vedere
quello che succede in qualsiasi luogo della terra, senza muoversi da casa
sua." In un mezzogiorno ardente fecero una mirabile dimostrazione con la
lente gigantesca: misero un mucchio di erba secca in mezzo alla strada e le
appiccarono il fuoco mediante la concentrazione dei raggi solari.
José Arcadia Buendìa, che ancora non era
riuscito a consolarsi dell'insuccesso delle sue calamite, concepì l'idea di
utilizzare quell'invenzione come arma di guerra. Melquìades, di nuovo, cercò di
dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre pezzi di
denaro coloniale in cambio della lente. Ursula pianse di costernazione. Quel
denaro faceva parte di un cofano di monete d'oro che suo padre aveva accumulato
in tutta una vita di privazioni, e che lei aveva seppellito sotto il letto in
attesa di una buona occasione per investirle.
José Arcadio Buendìa non cercò nemmeno di
consolarla, completamente assorto nei suoi esperimenti tattici con
l'abnegazione di uno scienziato e perfino a rischio della propria vita. Mentre
cercava di dimostrare gli effetti della lente sulla truppa nemica, espose sé
stesso alla concentrazione dei raggi solari e patì scottature che si
trasformarono in ulcere e guarirono solo dopo parecchio tempo. Nonostante le
proteste di sua moglie, messa in apprensione da un'invenzione così pericolosa,
poco mancò non incendiasse la casa.
Passava lunghe ore nella sua stanza,
facendo calcoli sulle possibilità strategiche di quella sua arma inusitata,
finché riuscì a comporre un manuale di una stupenda chiarezza didattica e di un
irresistibile potere di convinzione. Lo spedì alle autorità, allegandovi
numerose testimonianze sulle sue esperienze e vari fascicoli di disegni
illustrativi, affidandolo a un messaggero che attraversò la sierra, si perse
tra pantani smisurati, risali fiumi impetuosi e fu sul punto di perire sotto il
flagello delle belve, del paludismo e della disperazione, prima di riuscire a
raggiungere una, strada di allacciamento con le mule della posta. Nonostante il
viaggio alla capitale fosse in quei tempi poco meno che impossibile, José
Arcadio Buendìa si riprometteva di intraprenderlo non appena il governo glielo
avesse ordinato, allo scopo di dare dimostrazioni pratiche della sua invenzione
alle autorità militari, e addestrarle personalmente nelle arti complicate della
guerra solare. Per molti anni attese una risposta.
Alla fine, stanco di aspettare, si
lamentò con Melquìades de l fallimento della sua iniziativa, e lo zingaro diede
allora una prova convincente di onestà: gli restituì i dobloni in cambio della lente,
e gli lasciò inoltre delle mappe portoghesi e diversi strumenti di navigazione.
Scrisse di suo pugno una succinta sintesi degli studi del monaco Hermann, che
lasciò a sua disposizione perché potesse servirsi dell'astrolabio, della
bussola e del sestante. José Arcadio Buendìa trascorse i lunghi mesi di pioggia
chiu. so in uno stanzino che aveva costruito in fondo alla casa perché nessuno
turbasse i suoi esperimenti. Tralasciò completamente i propri doveri domestici,
rimase nel patio per notti intere a sorvegliare il corso degli astri, e fu sul
punto di contrarre un'insolazione mentre cercava di stabilire un metodo esatto
per trovare il mezzogiorno.
Quando fu esperto nell'uso e nel maneggio
dei suoi strumenti, ebbe una nozione dello spazio che gli permise di navigare
per mari incogniti, di visitare territori disabitati e di allacciare rapporti
con esseri splendidi, senza bisogno di lasciare il suo laboratorio. Fu in quel
periodo che prese l'abitudine di parlare da solo, vagando per la casa senza
badare a nessuno, mentre Ursula e i bambini si rompevano la schiena nell'orto
per coltivare il banano e la malanga, la manioca e l'igname, la ahuyama e la
melanzana. Improvvisamente, senza alcun preavviso, la sua febbrile attività si
interruppe e fu sostituita da una specie di allucinazione. Rimase come stregato
per parecchi giorni, continuando a ripetere a sé stesso a bassa voce una filza
di sorprendenti congetture, incapace egli stesso di dar credito al proprio
raziocinio. Alla fine, un martedì di dicembre, verso l'ora di pranzo, esplose
in un colpo solo tutta la carica del suo tormento. I bambini avrebbero
ricordato per il resto della loro vita l'augusta solennità con la quale il
padre si sedette a capotavola, tremante di febbre, consunto dalla veglia
prolungata e dal fermento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta:
"La terra è rotonda come un'arancia".
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