Il ragazzo con la pistola



Dal libro di Francesco Viviano "Io killer mancato" (Chiarelettere, 11,90 euro) pubblichiamo i primi due capitoli. (da "La Repubblica" del 29 settembre 2014)




La condizione era ideale. Pioveva e quasi tutti avevano l'ombrello aperto, il che impediva agli altri di vedermi bene in faccia. Io tenevo il mio abbassato in avanti per coprirmi il volto. Mi trovavo a un centinaio di metri da un palazzo di quattro piani che si affacciava su una piazza deserta. Ero arrivato poco prima delle sette del mattino.


L'uomo che aspettavo sarebbe presto uscito di
 casa per salire sulla sua automobile, una Fiat 1100 grigia parcheggiata a pochi metri di distanza su via Buonriposo.


Avevo la pistola in pugno. Il cane dell'arma, una Taurus a tamburo di fabbricazione brasiliana con sei colpi, era già alzato e l'indice era sul grilletto. Tremavo come una foglia. Avevo fatto le prove sparando una decina di volte in una zona di campagna nella Piana dei Colli, a nord di Palermo. A ogni colpo la rinculata mi spostava di fianco.

La pistola, vecchissima ma efficiente, era di mio nonno, che la custodiva da oltre vent'anni in un buco nel muro sopra una delle finestre di casa sua, insieme a una cassettina di legno impermeabilizzata con oltre 60 proiettili. Certo, avrei potuto procurarmi un'arma più moderna ed efficiente rivolgendomi a uno dei tanti amici che sbarcavano il lunario con scippi e rapine. Qualche volta prendevano "in affitto" le pistole da altri disperati e le restituivano con un lauto compenso se il colpo era andato a buon fine. Ma era molto pericoloso: avrei lasciato tracce e avrei dovuto fornire spiegazioni. Non potevo dire al mio fornitore che la pistola mi serviva per compiere un omicidio. Non me l'avrebbe data. Fino a quando si trattava di furti o rapine era facile farla franca, a meno che non ci fosse una soffiata. Ma su un morto ammazzato polizia e carabinieri avrebbero indagato a fondo. Era il 26 marzo 1966, avevo compiuto da poco diciassette anni ed ero li in via Buonriposo con quel ferrovecchio in mano per uccidere l'uomo che nel 1950 aveva ammazzato mio padre, lasciandomi orfano a tredici mesi. Avevo studiato il mio ? bersaglio? per giorni. Era un uomo sui quarant'anni, sempre vestito con lo stesso completo marrone. Avevo seguito ogni suo spostamento, sapevo quando usciva di casa e quando rientrava. Ora si trovava a due metri da me e mi dava le spalle.
 


Camminava lentamente, tenendo in braccio un bambino di un anno o poco più che mi guardava con curiosità oltre la sua spalla, fissando la mia mano che impugnava la pistola. Non sapeva che stavo per uccidere suo padre.


Vicolo Arena 12

La casa di mio nonno era composta da una sola stanza con il pavimento in cemento; una tenda separava la cucina da un gabinetto rudimentale. Il tappo sul water scavato nella roccia non riusciva a bloccare gli odori della fogna a cielo aperto che scorreva all'esterno. In quella casa-stanza in vicolo Arena 12 vivevamo in sette: mio nonno Francesco Viviano detto "don Ciccio", mastro muratore, mia nonna Giovanna Spano, mia madre Enza Bruno, io, due sorelle e un fratello di mio padre. Altri tre zii dormivano dai parenti che abitavano nello stesso vicolo. Due di loro facevano i cordai vicino a casa, sotto le mura di cinta di piazza Montalto. Io mi divertivo a guardare la ruota che attorcigliava i filamenti mentre i miei zii, con una saccoccia sulla pancia come quella dei canguri, sfilavano la canapa camminando all'indietro.


All'angolo del vicolo c'era via Albergheria, che finiva dritta dritta, fra case diroccate e distrutte dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nella piazza
 principale del mercato di Ballarò, nel cuore della vecchia Palermo. Il nostro era un quartiere popolarissimo, abitato prevalentemente da poveracci, borsaioli, scippatori, rapinatori, ricettatori, ma anche da persone perbene che riuscivano a sbarcare il lunario in maniera onesta.

Chi cercava un lavoro fisso si rivolgeva alle due uniche aziende del quartiere, quella per la lavorazione del pesce e delle olive, della famiglia Amodeo, e quella per l'inscatolamento del pomodoro, della caponata di melanzane e dei preparati di finocchietto per il condimento della pasta con le sarde, della famiglia Pensabene.


Io ero cresciuto li e ci stavo bene. Giocavo in strada con i ragazzi della mia eta, ben protetto da mia madre e soprattutto da mio nonno. Fra i suoi nipoti diretti e indiretti, che erano una quarantina, io ero il suo preferito perché ero il "figlio della buonanima". Quando tornava dal lavoro, sporco di calce anche in faccia, mi portava con se nelle taverne del quartiere. All'ingresso ricevevamo sempre la stessa accoglienza: "Un quarto di vino per don Ciccio e un bicchiere di passito per il figlio della buonanima. Tutto pagato nostro". Per non far bere i suoi clienti a stomaco vuoto, il taverniere portava una cesta di fil di ferro piena di uova sode e una pentola di coccio con "fave a coniglio" cotte in un brodo saporitissimo. Il venerdì c'era sempre un vassoio di baccalà fritto.


Restavo li fino a quando il taverniere annunciava con molto tatto che era ora di chiudere, ma prima che la saracinesca si abbassasse c'era sempre tempo per l'ultimo quarto di vino. Qualche volta per strada mio nonno barcollava, ma mi teneva sempre stretto per mano. Non diceva mai una parola, comunicavamo con gli sguardi. Lo adoravo, e lui adorava me. Tornati a casa trovavamo la cena pronta e il fuoco acceso nella cardarella, il secchio di metallo che don Ciccio usava per impastare la calce. Per riscaldare quella piccola stanza non c'era bisogno di molta legna.
 

La tavola quadrata poteva ospitare appena quattro persone per volta, perciò si mangiava a turno: prima i miei zii (i fratelli e le sorelle di mio padre), poi mia madre, i nonni e io. Non ho mai patito la fame. Divoravo le minestre di fagioli o quello che passava il convento, e chiudevo sempre il pasto con un po' di pane e olio. Il secondo non c'era quasi mai. La domenica ci si trattava meglio: pasta al sugo con tritato, cotoletta di carne di cavallo, che costava meno di quella di vacca, oppure polpette con le "sarde a mare", cioè niente sarde e molta mollica, pinoli e finocchietto di montagna. Si andava a letto prestissimo. Il primo era sempre mio nonno, che appena si stendeva sul materasso cominciava a russare, e mia nonna lo seguiva poco dopo. Quando c'era bel tempo ci si attardava sull'uscio di casa con i vicini, che in gran parte erano nostri parenti. 

Tutti sedevano fuori a chiacchierare. Si rideva, anche se molti non sapevano come avrebbero sbarcato il lunario il giorno dopo e se sarebbero riusciti a mettere in pentola qualcosa da mangiare. Per strada passavano i venditori che offrivano castagne bollite o piedini di agnello e di porco bolliti, e urlavano in dialetto: "Se non li vendo me li mangio".

Ogni volta che qualcuno usciva di galera, e accadeva spesso, si organizzava u triunfo, una festa di vicinato. Si facevano gli schiticchi (pasti in compagnia) e una piccola banda suonava il violino, il contrabbasso e la fisarmonica.

Si restava in strada fino a tardi per festeggiare l'ex detenuto, che il più delle volte finiva per tornare in prigione di li a breve.

Eravamo poveri, poverissimi, ma dignitosi. Mio nonno era molto rispettato nel quartiere. Nei vicoli, nei cortili e nei chioschi don Ciccio raccoglieva di continuo saluti deferenti. Molti andavano a trovarlo a casa per esporgli qualche problema da risolvere. Non era un mafioso, altrimenti non sarebbe stato cosi povero, ma era rispettato dai boss, che lo invitavano alle loro scampagnate domenicali. In qualità di "figlio della buonanima", ero l'unico bambino ammesso a quelle tavolate, dove il vino non mancava mai. Bevevo sempre il passito, una sorta di gassosa colorata. Gli adulti parlavano tranquillamente, a bassa voce. Non ho mai assistito a risse o alterchi. Mio nonno era amico dei boss ma non faceva affari con loro.


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