Una specie di felicità




Francesco Carofiglio, Una specie di felicità, Edizioni Piemme, Milano, 2016, pp. 240.



LA TRAMA
La vita di Giulio d’Aprile cambia in una bella giornata di fine ottobre, mentre percorre il viale alberato che lo condurrà all’Istituto dove lavora come psicoterapeuta. Varcata la soglia di quel luogo, in cui il tempo sembra essersi fermato, Giulio incontra l’uomo che molti anni prima era stato il suo maestro. La persona geniale, brillante, autorevole ha lasciato però il posto a un vecchio stanco. La memoria vacilla e gli occhi sembrano perdersi altrove. Da quel giorno il Professore sarà un suo paziente. Da quella mattina di ottobre avrà inizio un duello. I due uomini dovranno fare i conti con una verità dolorosa che entrambi  nascondono, in un progressivo e incalzante ribaltamento dei ruoli.  La vita di Giulio entra ed esce da quella stanza, il matrimonio fallito, la perdita del padre, il senso di inadeguatezza nei confronti dei figli, il mondo perfetto di un passato confezionato in un’esistenza senza slanci. Fino a quando appare qualcuno e qualcosa accade. E inverte bruscamente la rotta, tra il buio e la luce. Come una crepa nel muro. Come una specie di felicità.






“Possiamo confidare in noi stessi nell’affrontare gli eventi, oppure fuggire con il pensiero, con il rifiuto”.

“Cucinare […] era un modo per sentirsi, curiosamente, parte del mondo”.

“Gli sembrava di essere stato lo spettatore inutile di uno spettacolo inutile”.

Queste tre frasi credo che rappresentino in modo esemplare Giulio d’Aprile, il protagonista di Una specie di felicità di Francesco Carofiglio.
Il protagonista ricorda, per molti aspetti, l’inetto della letteratura dei primi del Novecento, colui che guardava la sua vita scorrere come uno spettatore esterno, incapace di controllare gli eventi, anzi lasciando che fossero gli eventi stessi a travolgerlo.
Giulio è cosi, è uno spettatore della sua vita, una vita che non gli piace, nella quale vorrebbe intervenire non riuscendo a trovare mai il momento adatto per farlo.
Fino a quando si rende conto che il suo vivere non è vivere, che finalmente deve essere lui a guidare la sua vita. Ed è così che avvengono le due svolte essenziali della sua vita (e del libro): quella col professore e quella con i suoi figli, entrambe “guidate”, in un certo senso, da un incontro fortuito, strano, inusuale e furtivo ma, allo stesso tempo, fondamentale per provocare in Giulio quel subbuglio interiore necessario alla presa di coscienza.

Non credo che il protagonista rappresenti un soggetto lontano dalla realtà.
Credo che a molti di noi sia capitato di sentirsi spettatori della propria vita, quasi incapaci di dare un senso alle cose e agli eventi.
Spesso ci lasciamo trascinare dalle situazioni senza prendere una posizione, quasi come un alibi per non ammettere i nostri limiti o le nostre incapacità. Eppure a volte basta veramente poco per dare un senso alle cose e rendere migliore la nostra vita anche se ci sembra che ci vorrebbe un’altra vita per rimediare agli errori di quella che stiamo vivendo.


Il testo scorre facilmente, la scrittura può apparire, a prima vista, semplice e asciutta (e in effetti lo è) ma con innesti più letterari e, se vogliamo, anche aulici grazie alle citazioni da testi importanti e impegnativi.






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