Purgatorio. Canto V

Purgatorio. Canto V.




Secondo balzo dell'Antipurgatorio. Incontro con i Morti per forza. Colloquio con Iacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia de' Tolomei.

 

"Dante ha appena concluso ridacchiando sotto i baffi un buffissimo scambio di battute con Belacqua e Virgilio ha finito appena di accigliarsi con Dante perché vede quanto a lui piace perder tempo in chiacchiere.

Come Dante, stanatosi dal’ombra che orla la roccia, torna a proiettare per terra la propria, i morti si accorgono che è vivo, e allibiscono. Lui allora che fa? Gira la testa. Traccheggia, s’attarda un po’ a guardare quelli che guardano lui, proprio lui guardano, non fanno che guardarlo… incuriosito di sé, della sua propria ombra, del suo proprio corpo… quasi stupito d’esser vivo…

E Virgilio s’indigna: “Come mai continui a distrarti e rallentare? Che t’importa di questo mormorio di penitenti? Viemmi dietro e lascia che dicano”.

Molto si è discusso sulla monumentalità dell’esortazione di Virgilio, quasi sproporzionata alla modestia della trasgressione che rimprovera.

La fermezza estrema dell’immagine e il gran rigore etico e concettuale di questo appello, singolarmente ordito di verbi di moto, paiono imprimere sul canto che avviano un singolare contrassegno: quello di una frenesia lapidaria, di un dinamismo irremovibile.

Intanto i due poeti sono giunti a un gradino più in alto dove intravedono un gruppo di anime procedere cantando il Miserere: sono i Morti-per-forza. Il loro coro abbina un grido di implorazione a un complesso sviluppo polifonico, sincronizzando attimo e durata. Tutto ciò rappresenta il paradigma del tempo purgatorio, fatto di asincronismi e inquietudine ritmica.

Da quattro canti e mezzo Dante-personaggio-poeta ci sta raccontando, con insistenza crescente, l’effetto che faceva alle anime del purgatorio l’apparizione di Dante-personaggio-pellegrino in carne e ossa, insomma, la costernazione che scatena nei morti la visione di un vivo.

I Morti-per-forza reagiscono all'apparizione con un trambusto interiore, una precipitazione, una coralità, una delicatezza senza precedenti." (Vittorio Sermonti, Il Purgatorio, Garzanti, 2021)

Del gruppo di anime che si trova di fronte, Dante si sofferma su tre in particolare. Il primo a parlare è Jacopo del Cassero, il quale non dice il proprio nome ma si identifica raccontando la sua uccisione con parole molto dure verso il mandante.

Il secondo personaggio è Bonconte da Montefeltro che si presenta e suscita la curiosità di Dante, poiché il suo corpo non era mai stato trovato sul campo di Campaldino dove egli era caduto. Il racconto di Bonconte delinea uno scenario grandioso e solenne, che riprende per contrasto il racconto simile che il padre Guido aveva fatto a Dante nel Canto XXVII dell'Inferno, in quel caso credendo che le sue parole non sarebbero arrivate nel mondo. Bonconte invita invece Dante a riferire a'  vivi la verità di quanto accadde a Campaldino: la sua anima venne contesa tra un angelo e un diavolo, ma Bonconte si era pentito sinceramente e dunque la sua anima era destinata al Purgatorio. A quel punto il diavolo aveva scatenato una terribile tempesta che trascinò via il cadavere di Bonconte, seppellendolo sul fondale dell'Arno e non facendolo più ritrovare: il racconto del penitente è importante e crea un voluto contrasto con l'episodio del padre Guido, poiché quello era da tutti creduto salvo per la sua monacazione e invece è finito dannato per la non sincerità del suo pentimento, mentre Bonconte si è realmente pentito e ora è salvo, anche se la sua morte violenta e la scomparsa dal cadavere potevano far credere alla sua dannazione. L'episodio si chiude con la parentesi delicatissima di Pia de' Tolomei, che prende la parola con pochi versi di straordinaria dolcezza: la penitente è meno insistente degli altri, prega Dante di ricordarsi di lei quando sarà tornato sulla Terra ed essersi riposato de la lunga via. Gli ultimi tre versi del Canto sono come un'epigrafe funeraria, con l'indicazione del luogo di nascita e di morte della fanciulla (Siena mi fé, disfecemi Maremma, che è anche un chiasmo) e l'accusa, molto velata e in tono col personaggio, rivolta al marito di averla uccisa, senza alcuna parvenza di rancore o di biasimo.

"L’io-anima che parla dalle bocche di questi assassinati è un io ambiguo, provvisorio, amputato. E alla vista del pellegrino che risale il monte con quelle membra con le quali è nato, il desiderio di recuperare l’interezza della propria persona il giorno della resurrezione della carne si fonde in queste ombre senz’ombra con la nostalgia per il corpo perduto; l’aspirazione cocente alla vita dei beati, con un fioco rimpianto per la sola vita che abbiano conosciuto sulla terra, come se ancora patissero inasprito dell’apparizione d’un vivo, il sacro scandalo di essere morti, e la loro anima scorporata tremasse ancora di un remoto batticuore." (Vittorio Sermonti, Il Purgatorio, Garzanti, 2021)


Io era già da quell’ombre partito,

e seguitava l’orme del mio duca,

quando di retro a me, drizzando ‘l dito,                           3

 

una gridò: «Ve’ che non par che luca

lo raggio da sinistra a quel di sotto,

e come vivo par che si conduca!».                                   6

 

Li occhi rivolsi al suon di questo motto,

e vidile guardar per maraviglia

pur me, pur me, e ‘l lume ch’era rotto.                            9

 

«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,

disse ‘l maestro, «che l’andare allenti?

che ti fa ciò che quivi si pispiglia?                                  12

 

Vien dietro a me, e lascia dir le genti:

sta come torre ferma, che non crolla

già mai la cima per soffiar di venti;                                 15

 

ché sempre l’omo in cui pensier rampolla

sovra pensier, da sé dilunga il segno,

perché la foga l’un de l’altro insolla».                            18

[…]

«O anima che vai per esser lieta

con quelle membra con le quai nascesti»,

venian gridando, «un poco il passo queta.                   48

 

Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,

sì che di lui di là novella porti:

deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?                 51

 

Noi fummo tutti già per forza morti,

e peccatori infino a l’ultima ora;

quivi lume del ciel ne fece accorti,                                  54

 

sì che, pentendo e perdonando, fora

di vita uscimmo a Dio pacificati,

che del disio di sé veder n’accora».                               57

[…]

E uno incominciò: «Ciascun si fida

del beneficio tuo sanza giurarlo,

pur che ‘l voler nonpossa non ricida.                             66

 

Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo,

ti priego, se mai vedi quel paese

che siede tra Romagna e quel di Carlo,                       69

 

che tu mi sie di tuoi prieghi cortese

in Fano, sì che ben per me s’adori

pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.                            72

 

Quindi fu’ io; ma li profondi fóri

ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea,

fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,                              75

 

là dov’io più sicuro esser credea:

quel da Esti il fé far, che m’avea in ira

assai più là che dritto non volea.                                    78

[…]

Poi disse un altro: «Deh, se quel disio

si compia che ti tragge a l’alto monte,

con buona pietate aiuta il mio!                                        87

 

Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;

Giovanna o altri non ha di me cura;

per ch’io vo tra costor con bassa fronte».                     90

[…]

«Deh, quando tu sarai tornato al mondo,

e riposato de la lunga via»,

seguitò ‘l terzo spirito al secondo,                                 132

 

«ricorditi di me, che son la Pia:

Siena mi fé, disfecemi Maremma:

salsi colui che ‘nnanellata pria

 

disposando m’avea con la sua gemma».                   136


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